GIANFRANCO CHIAVACCI

09 / 30 APRILE 2011



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1970. La grammatica della macchina

Quando negli anni Settanta Gianfranco Chiavacci si accosta alla sperimentazione attorno alla tecnologia, con un uso non convenzionale della macchina fotografica, riflette una sensibilità condivisa da un grande settore del mondo dell’arte internazionale. La sua attenzione al sistema numerico binario, che l’artista esercita in successive  declinazioni, e con diversi medium, a partire dal decennio precedente, esprime il bisogno di sintetizzare (e chiarire a se stesso e a quel pubblico che, anche se silenzioso o remoto, è sempre interlocutore dell’autore nel suo studio) un rapporto inevitabile con la “macchina”, tanto nella struttura fisica quanto negli apparati teorici. In quegli stessi anni Woody Vasulka dichiarava, a proposito del video, la corresponsabilità dello strumento tecnologico nell’esito creativo. E Chiavacci elabora in modo autonomo questa tensione (in parte anche autobiografica, legata com’è alla sua professione che lo poneva quotidianamente a contatto con l’elettronica) tra l’artista e la presenza ineludibile della tecnologia.
La questione, allora come oggi, con cui ogni autore deve misurarsi è quella del linguaggio, quella varietà di segni e convenzioni individuate a strutturarli, che definiscono per l’artista la capacità di uscire dalla retorica e dal metodo, per potersi inoltrare, oltre confine, nella possibilità di creare visioni. Chiavacci, adottando nelle opere fotografiche la tecnologia sia come strumento che come oggetto virtuale del suo lavoro, tesse in modo strettissimo il procedimento all’ispirazione, lega l’operazione meccanica della posa e della ripresa all’apertura alata della creazione: così il metodo diventa (nel tempo stesso in cui lo rivela) linguaggio. L’opera, ogni opera d’arte, si afferma come deviazione rispetto a un sistema di regole. Ed è esattamente quanto avviene nelle opere fotografiche di Gianfranco Chiavacci, nel momento in cui la luminosità, il colore, gli effetti del movimento vengono resi secondo una possibilità compresa dallo strumento (questo è il metodo) ma non prevista dalle sue regole (ed ecco il linguaggio).
Gli oggetti astratti che compaiono nelle stampe fotografiche contengono un carattere bidimensionale che va oltre la loro natura fisica. Siamo negli anni Settanta, dicevamo, e Chiavacci intravede nella semplice azione di fotoimpressione della pellicola futuribili accessi alla tridimensionalità digitale. Il segno, che culturalmente appare inserito nel gusto e nelle forme del suo decennio, contiene la prospettiva di quello sdoppiamento che informa il tempo presente, dove la presenza di un oggetto nello spazio  rappresenta solo una delle possibili realtà che lo riguardano e che lo rendono percettivamente raggiungibile. Così, la ricerca quasi cinquantennale di Chiavacci intorno alla “grammatica binaria” (un percorso articolato, ricchissimo di variazioni e deroghe da se stesso) diventa più chiara che mai e più efficace visivamente proprio nella fase in cui si discosta dalla rappresentazione in codice.

Pietro Gaglianò